E tu come hai ‘usato’ il tuo dolore?

Riflessioni tra domande inopportune e l’andare avanti

Qualche tempo fa il settimanale di un quotidiano italiano - in un'edizione dedicata alle madri 'in sospeso' - invitava le proprie lettrici a scrivere e raccontare come avessero 'usato' le loro 'dosi di dolore' per non essere riuscite a concepire. Mi ha colpito il termine 'usato,' come se il dolore fosse una specie di accessorio inutile comprato accidentalmente durante un’uscita per fare compere, per il quale fosse necessario trovare un ruolo pratico per giustificarne l’esistenza. ‘Il dolore di un'aspettativa delusa è forse uno dei più grandi che si possa provare,’ diceva il testo, ‘soprattutto quando non è per mancanza di volontà o di entusiasmo che non riusciamo a realizzare i nostri sogni. A volte, semplicemente, la vita ha in serbo per noi piani diversi da quelli che avevamo in mente.’ Ero proprio irritata. Il tono era condiscendente: innanzitutto il rivolgersi solo alle donne (perchè gli uomini non soffrono a causa dell'infertilità?); poi il presupposto che la maternità possa, nel peggiore dei casi, essere 'sospesa' o ritardata - e se, come nel mio caso, non si realizza per niente?; infine l’approdo alla conclusione, data per scontata, che comunque, ‘la sofferenza qualche insegnamento lo dà sempre.’ Come se quest’ultimo punto fosse una consolazione per una vita completamente stravolta! 'Sì,' ho pensato 'penso proprio di avere una storia da condividere.' Così ho scritto questa lettera:

Cari Editori,

Chi l’avrebbe pensato che nella liberalissima Norvegia, terra dell’eguaglianza e dei diritti delle donne, ci sarebbe voluta un’italiana per rompere il silenzio attorno al non avere figli?

Mi chiamo Cristina Archetti, sono docente di Comunicazione Politica e Giornalismo (Political Communication and Journalism) all’Università di Oslo. Mi sono trasferita in Norvegia 5 anni fa, dopo aver passato 16 anni nel Regno Unito. A causa di una “infertilità inspiegabile,” per me e mio marito, come per praticamente un quarto della popolazione adulta del mondo occidentale (i volontariamente senza figli, o childfree, sono molto meno numerosi di quel che si creda), avere dei figli non è stato possibile. Cosa ho fatto del mio dolore? 4 cose e mezza.

Una. Ci ho scritto un libro, Childlessness in the Age of Communication: Deconstructing Silence (tradotto in italiano, più o meno, L’essere senza figli nell’era della comunicazione: Come spiegare il silenzio). Con questo lavoro, che combina ricerca scientifica ed esperienza biografica, volevo sciogliere un mistero: come è possibile che, con tutte le piattaforme di comunicazione di cui disponiamo, si sappia così poco delle persone involontariamente senza figli, una “minoranza” globale di milioni e milioni di persone? Volevo anche sottolineare che non aver un bambino o una bambina, tutto sommato, per quanto devastante sia, è, in realtà, il meno. Il vero problema è quel terrificante “resto” fatto di domande esistenziali, invisibilità e silenzio. Per esempio, se solo una madre può dirsi una “vera” donna, allora io cosa sono? Se essere felici, come ci ripetono i messaggi che risuonano dalle pubblicità sugli schermi televisivi agli Instagram degli amici, vuol dire avere dei figli, allora riusciremo mai ad essere felici? L’infertilità non è solo un problema medico riguardante il concepire o no. Quando praticamente tutte le società sono organizzate attorno alla famiglia, allora il non avere figli diventa una questione sociale e politica. Un altro esempio: i servizi sanitari nazionali fanno tacitamente affidamento sull’aiuto prestato agli anziani dai figli adulti. Allora chi si prenderà cura di noi? Questa domanda mi spaventa.

Due. Ho fondato la prima associazione norvegese, Andre veier (Altre strade) per le persone permanentemente senza figli e aperto un forum di discussione online Den hemmelige hytta (qualcosa come “La piccola baita segreta”) per le donne senza figli.

Tre. Sono la portavoce per la Norvegia del World Childless Week, un evento online che dura un’intera settimana ed è dedicato alle persone involontariamente senza figli. Quest’anno sarà tra il 14 e il 20 settembre.

Quattro. Ho trasformato la mia ricerca in performance teatrale (disponibile su Youtube qui o, in alternativa, seguendo questo link): perchè ho capito che le statistiche non dicono niente della vita, delle speranze infrante, e del dolore che si cela dietro i numeri e le loro facce da poker. Poi la presentazione accademica non rendeva. Quando ti dico che non avere figli produce una reazione simile a quella che segue la morte di una persona, con la differenza che questa ferita rimane aperta indefinitivamente perchè spesso non c’è nemmeno un corpo da seppellire, vedo che ancora non capisci di cosa sto parlando. Me lo dice la tua faccia confusa. Mi guardi come se venissi da un altro pianeta. E il bello è che hai pure ragione. Non vivo nel tuo stesso mondo. Io mi sento invisible, non rappresentata, insultata dai politici che si rivolgono sempre alle famiglie, come se io non esistessi, e da quelli che partono dal presupposto che devo essere egoista o che pensi solo a divertirmi perchè non ho figli. Ma ritorniamo al punto: mi serviva il teatro per far provare qualcosa al mio pubblico, perchè se non hai attraversato l’esperienza dell’infertilità non hai assolutamente idea di che cosa significhi e al massimo mi invidi perchè pensi che devo avere un sacco di tempo libero.

(Cinque. In realtà ho anche partecipato al documentario Mammaen i meg (La mamma dentro di me) di Hilde Merete Haug, che uscirà a breve, e organizzato due dibattiti aperti al pubblico a Oslo e Kristiansand, ma la lista era già lunga abbastanza.)

In Norvegia, come nel resto della Scandinavia, l’intera società ruota attorno ai bambini. È meraviglioso. Se non ce li hai però sei tagliato fuori. Non riuscire ad avere figli, di gran lunga al di là che nel sud Europa, è fonte di profonda vergogna. Nessuno vuole ammetterlo e uscire allo scoperto. Allora lo faccio io.

Cercare di rompere un tabù in una terra straniera richiede la stessa determinazione, o pazzia, del parlare con i muri. Una testata giornalistica norvegese, l’Aftenposten, quando è uscito il mio libro, mi ha chiesto di scrivere un articolo (questa è la versione in inglese). Fra i tanti commenti ce ne sono stati alcuni offensivi—‘deprimenti’ come mi hanno eufemisticamente riferito alcuni conoscenti. Ma io, a dire la verità, quei commenti non li ho nemmeno letti. Come ho imparato degli attivisti del Black Lives Matter, quando hai una missione, conservare il tuo benessere psico-fisico per continuare a lottare è di per sè un atto di resistenza.

Alcuni giorni sono meglio degli altri. Sono in contatto con organizzazioni alleate in vari paesi europei. Noi ricercatori e attivisti senza figli siamo anche un network internazionale di amicizia e sostegno. A volte, quando discutiamo su Zoom, Skype o Messenger confrontando le nostre esperienze, cercando di portare un pò della nostra realtà parallela e nascosta nel mondo “normale,” sembra di pianificare una rivoluzione, anche se al rallentatore. Altre volte ci si sente soli e basta.

Raccontare la mia storia e quella dei partecipanti alla mia ricerca mi ha aiutato a “digerire” il trauma dell’infertilità, a dargli un senso. Ho anche capito che il dolore non si supera mai. Con il tempo però ho imparato a contenerlo e dargli forma. Non è più lui che mi definisce.

E nonostante tutto ci sono ancora momenti, soprattutto in questi giorni di lockdown, in cui mi sembra di arrancare. Dovrei scrivere un post sulla pagina Facebook della nostra associazione, ma mi sento schiacciata, incapace di muovermi. Infatti non so neppure perchè dovrei alzarmi dal letto.

Poi però mi ricordo che ho tanti fratelli e sorelle senza figli, come me, in Italia e per il mondo. Sono tutti la mia famiglia. Il mio dolore è diventato impegno per rompere il silenzio e far risuonare le nostre voci in un mondo più aperto. Allora va bene, mi alzo. E se oggi va così, domani passerà.

Grazie di avermi letto e cordiali saluti da Oslo,

Cristina

Nel caso ve lo steste chiedendo, sono stata ringraziata per il mio ‘forte’ contributo. La mia lettera, tuttavia, non è stata pubblicata. Certo, ci sono tanti possibili motivi. Immagino però che la mia storia non abbia fornito l'unico lieto fine "accettabile". Inoltre, al di là degli inviti retorici al condividere le proprie esperienze, chiaramente non ci si aspetta che "imparare dal dolore" significhi diventare più forti e più mature, men che meno in grado di lottare contro quella società che in qualche modo trova rassicurante vederci messe a silenzio dalla vergogna. Invece, ci si aspetta che mi trasformi nell’ennesima dimostrazione che, come donna, senza figli, sono un’ombra vuota seduta in un angolo, tra frammenti di sogni infranti. La mia curva di apprendimento, per la "maggioranza" là fuori, è semplicemente troppo ripida. La sfida più grande in questa fase del viaggio attraverso l'infertilità è infatti l’essere credute/i: sì, è possibile vivere senza figli, è possibile avere un'esistenza piena di significato e pure sentirci realizzate/i.

Sono grata di avere "la mia gente" con cui poter condividere la mia storia – altre/i in circostanze simili, persone che possono capire e che sono state la mia più grande fonte di ispirazione nella lotta per “riscrivere” una vita per la quale ancora non esiste un copione. Essere presenti l'uno per l'altro: questo, in definitiva, è il miglior "uso" per il nostro dolore.

Cristina Archetti